22 Settembre 2001
Written by: Mauro
Marco dovete andare assolutamente nella
Downtown Manhattan - prendete il ferry che va a Staten Island - all'andata
è un pò una merda - al ritorno è grandioso - passi
davanti ad Ellis Island, alla statua della libertà - sarà
bellissimo vedrai il Manhattan Skyline con le torri gemelle......
.....ragazzi mi hanno scritto Marco e Giulia.....tutto
bene....non sono riusciti a contattare l'Italia telefonicamente....grossa
paura, ma stanno bene
A un'americana e newyorkese, come me, triste e sgomenta, l'America
non è mai apparsa così lontana dal riconoscere la realtà
come quando si è trovata di fronte alla mostruosa dose di realtà
di martedì scorso. La sconnessione tra quel che è successo
e i possibili modi di comprenderlo, da un lato, e le sciocchezze ipocrite,
le falsità belle e buone che, dall'altro, vengono spacciate in
America da quasi tutti i politici e i commentatori televisivi è
allarmante, deprimente. Sembra che le voci autorizzate a seguire un
evento di tale portata si siano coalizzate in una campagna mirata a
infantilizzare il pubblico.
Dov'è chi riconosce che non si è trattato
di un «vile» attacco alla «civiltà»,
o alla «libertà», o all'»umanità»,
o al «mondo libero», ma di un attacco all'autoproclamata
superpotenza del mondo, sferrato in conseguenza di specifiche azioni
e alleanze americane? Quanti americani sanno che l'America continua
ancora a bombardare l'Iraq? E se la parola «vile» va proprio
usata, forse sarebbe più pertinente riferirla a chi uccide dall'alto
del cielo, al di fuori del raggio di possibili reazioni, piuttosto che
a chi è pronto a morire per uccidere gli altri. Quanto al coraggio
(una virtù moralmente neutra): qualunque cosa si possa dire di
coloro che hanno perpetrato la carneficina di martedì, non erano
vili.
I leader americani sono decisi a convincerci che tutto è ok.
L'America non ha paura. Il nostro morale è intatto. «Loro»
saranno stanati e puniti (chiunque siano questi «loro»).
Abbiamo un presidente robot, pronto ad assicurarci che l'America resta
ancora a testa alta. E, a quanto pare, le varie e numerose personalità
pubbliche che si sono opposte con forza alle politiche estere adottate
da questa amministrazione si sentono libere soltanto di dirsi unite
nel sostenere il presidente Bush. Ci è stato detto che tutto
è, o sarà, ok, anche se si è trattato di un giorno
la cui infamia resterà viva e adesso l'America è in guerra.
Non è vero che tutto è ok. E non si è trattato
di una Pearl Harbor.
E' necessario riflettere a fondo, e forse lo si sta facendo
a Washington e altrove, sulla colossale inefficienza del sistema di
intelligence e controintelligence americano, sulle opzioni possibili
alla politica estera americana, soprattutto in Medio Oriente, e su ciò
che costituisce un efficace programma di difesa militare. Ma chi ricopre
cariche pubbliche, chi vi aspira, chi le ha già ricoperte - con
la spontanea complicità dei principali mezzi di comunicazione
- ha stabilito che non si può chiedere al pubblico di sopportare
troppo il peso della realtà. Le ovvietà autocelebratorie
e unanimemente applaudite dei congressi di partito sovietici ci sembravano
spregevoli. L'unanimità dell'untuosa retorica di cancellazione
della realtà che quasi tutti i politici e i commentatori americani
hanno profuso in questi ultimi giorni sembra, be', indegna di una democrazia
matura.
I leader e gli aspiranti leader americani ci hanno fatto
capire che considerano il proprio compito pubblico un compito di manipolazione:
di costruzione della fiducia e gestione del dolore. La politica, la
politica di una democrazia - che comporta il disaccordo, che promuove
la sincerità - è stata sostituita dalla psicoterapia.
Certo, piangiamo tutti insieme. Ma cerchiamo di non essere stupidi tutti
insieme. Qualche brandello di consapevolezza storica potrebbe aiutarci
a capire cosa è appena successo, e cosa può ancora succedere.
«Il nostro paese è forte», ci viene ripetuto continuamente.
Io, per parte mia, non la trovo un'affermazione del tutto consolatoria.
Chi dubita del fatto che l'America è forte? Ma l'America ha il
dovere di non essere soltanto questo.
Susan Sontag
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